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  • Luca Dal Carlo
    Luca Dal Carlo

    Studio Statistico Su 6200 Impianti in Titanio Inseriti in 20 Anni in 2800 Interventi

      Descrizione: Risultati Clinici Nelle Diverse Situazioni Anatomiche E Funzionali Autore/i: Luca Dal Carlo

    Introduzione

    Nel presente studio statistico si illustrano dati che permettono di cogliere la metodologia di lavoro e di rapporto con il paziente caratteristica della libera professione. Tutti i pazienti sono stati seguiti dal medesimo operatore in ogni fase dell’iter terapeutico, a cominciare dalla prima visita, per poi passare attraverso le sedute operative, chirurgiche e non chirurgiche, fino ai controlli a distanza di 5, 8 e 10 anni dal posizionamento degli impianti.

    Alcuni autori hanno in passato pubblicato studi le cui conclusioni sono che, per stabilire la prognosi di successo di un impianto, sia sufficiente un breve follow up, di uno o due anni(1,2). All’opposto, alcuni autori di scuola italiana sostengono l’influenza negativa dello squilibrio occlusale nella prognosi di durata dell’impianto, anche molti anni dopo l’osteointegrazione(3,4,5). Di conseguenza, sembra più coerente disporre di griglie di controllo a 5, 8 e 10 anni. Anche griglie di controllo a 15 anni, 20 anni ed oltre risulterebbero utili e significative, ma già tenere sotto controllo per 20 anni i pazienti che sono giunti agli sbarramenti dei 10 anni è risultato essere un lavoro molto impegnativo. Per seguire attentamente lo sviluppo di questo lavoro scientifico e derivarne adeguate indicazioni cliniche, è necessario fare costante riferimento alla Figura 2, in cui sono illustrati parte degli impianti citati nel testo.

     

    Materiali e Metodi

    Per 20 anni (8.3.1989 – 8.3.2009) sono stati raccolti i dati relativi a tutti gli interventi di implantologia eseguiti (figura 1). E’ stato compilato un database registrando:

     

    Schermata 2017-08-01 alle 21.37.44.jpg   

     

    Dopo 5, 8 e 10 anni dall’intervento è stata verificata la sopravvivenza degli impianti. I dati inseriti nel database sono stati poi trasferiti in un file Microsoft Excel, includente:

     

    • Data di aggiornamento della statistica
    • Tipo di impianto
    • Numero globale di ogni tipo di impianto posizionato dall’inizio dello studio statistico
    • Somme globali di impianti della stessa categoria (categorie: viti sommerse, viti in monoblocco, lame sommerse, lame in monoblocco, aghi in monoblocco)
    • Numero globale di impianti falliti prima del posizionamento della protesi fissa definitiva
    • Numero globale di impianti falliti dopo il posizionamento della protesi fissa definitiva
    • Numero globale di impianti falliti ad oltre 5 anni dall’intervento
    • Somme globali di impianti della stessa categoria falliti prima del posizionamento della protesi fissa definitiva
    • Somme globali di impianti della stessa categoria falliti dopo il posizionamento della protesi fissa definitiva
    • Somme globali di impianti della stessa categoria falliti dopo oltre 5 anni dall’intervento
    • Percentuale globale di successo
    • Percentuale media di successo per impianti della stessa categoria
    • Numero di impianti che superano i 5 anni di durata
    • Numero di impianti falliti prima di 5 anni
    • Percentuale di sopravvivenza a 5 anni
    • Numero di impianti che superano gli 8 anni di durata
    • Numero di impianti falliti prima di 8 anni
    • Percentuale di sopravvivenza a 8 anni
    • Numero di impianti che superano i 10 anni di durata
    • Numero di impianti falliti prima di 10 anni
    • Percentuale di sopravvivenza a 10 anni
    • Pazienti deceduti prima degli sbarramenti a 5, 8 e 10 anni

     

    I pazienti deceduti od irreperibili sono stati esclusi dalla statistica.

     

    Nota sui dati globali

    I dati globali sono riferiti a tutti gli impianti posizionati dall’inizio alla fine della raccolta dati (periodo 8.3.’89 - 8.3.’09). Ovviamente, la statistica globale di successo è influenzata negativamente dal passare del tempo, in quanto include anche gli impianti che hanno superato la griglia dei 10 anni. Infatti, per esempio, se un impianto è stato inserito durante i 6 anni compresi tra il 1989 e il 1995 ed i dati vengono raccolti nel 2009, la statistica globale di successo è influenzata fortemente da impianti che hanno abbondantemente superato la griglia dei 10 anni e sono andati incontro a fallimento dopo 14-20 anni.

     

    Metodologia di lavoro

    Molti sistemi di impianto sono stati utilizzati, la cui scelta è dipesa da:

    1. caratteristiche anatomiche rilevate analizzando gli esami diagnostici e l’esame obiettivo eseguito all’inizio dell’intervento chirurgico
    2. funzione protesica prevista
    3. situazione standard o di urgenza dell’intervento
    4. necessità di carico immediato o differito

     

    Tutti gli interventi sono stati fatti sotto anestesia locale, somministrando al paziente, se non vi erano controindicazioni, alcune gocce di ansiolitico per prevenire problemi legati all’ansia ed una compressa anti-emorragica (acido tranexamico) per ridurre il sanguinamento e migliorare quindi la visibilità in corso d’intervento.

    Gli interventi su cresta guarita sono stati eseguiti a cielo aperto, per esaminare accuratamente la cresta ossea, per trattare correttamente i tessuti molli e per attivare tutti i processi biologici infiammatori post-chirurgici che conducono alla rigenerazione di nuovo osso e ad una guarigione ottimale. Gli impianti post-estrattivi sono stati inseriti nella medesima seduta, immediatamente dopo l’estrazione. Ad eccezione di una quindicina di “overdentures” mandibolari, realizzate in casi di marcata atrofia con la tecnica degli “O-Rings”, gli impianti sono stati caricati con protesi fisse, ossia fissate ad impianti che scaricano le forze nel tessuto osseo (il “carico fisiologico” del consensus sul carico degli impianti tenutosi a Verona nel 2003) (6).

     

    Nel corso degli anni alcuni sistemi di impianto sono stati abbandonati, preferendo ad essi altri più versatili, completi e sicuri. Alcuni sistemi d’impianto sono stati abbandonati perché, pur essendo validi, non sono più presenti sul mercato.

     

    In questo studio, molti tipi di impianto in titanio sono stati utilizzati, (figura 2): tali impianti sono descritti e catalogati con un sigla: le lettere greche indicano le diverse forme e i numeri 1, 2, 3 se si tratta di impianto sommerso, non sommerso, o in monoblocco. Qualora della medesima forma esistano le varianti sommersa, non sommersa e in monoblocco, si è utilizzata la medesima lettera greca con il numero progressivo (es. a1, a2, a3).

     

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    Impianti a lama sommersa

    Sono stati utilizzati due sistemi di impianto (j1 e k1). Questi impianti sono stati utilizzati solo in creste ossee guarite da lungo tempo, solo con carico differito.

     

    Impianti a lama semi-sommersa e in monoblocco

    Sono stati utilizzati due sistemi di impianto (y2 e l3). Questi impianti sono stati utilizzati solo in creste ossee guarite da lungo tempo, sia con carico differito che con carico immediato.

     

    Impianti ad ago

    E’ stato utilizzato un sistema di impianto (p3). Questi impianti sono stati utilizzati sia in creste ossee guarite da lungo tempo che come impianti post-estrattivi immediati, prevalentemente con carico immediato, ma anche con carico differito.

     

    In tavola 1 si possono vedere le indicazioni all’impiego dei diversi tipi d’impianto.

     

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    In molti casi gli impianti sono stati uniti tra di loro utilizzando la saldatrice endorale di Mondani ed un filo od una barra di titanio, secondo metodiche ampiamente descritte in letteratura (7-19). L’importanza di unire insieme gli impianti per il miglioramento della predicibilità di successo degli impianti è oggi universalmente riconosciuta. Agli autori italiani che sostengono questa tesi da lungo tempo si sono aggiunti molti autori internazionali(20-27).

    A volte, la percentuale di successo ad 8 o 10 anni risulta migliore di quella a cinque. Questo perché ad ogni griglia partecipano, nel bene e nel male, solamente gli impianti che hanno superato lo sbarramento.

     

     

    RILEVAZIONE STATISTICA

     

    Impianti a vite sommersa (utilizzati dal 1989)

    Il numero complessivo di impianti a vite sommersa utilizzati è stato pari a 1776, per una percentuale globale di successo del 95,5 %. In conseguenza dei buoni risultati clinici, rilevati durante i primi 10 anni di raccolta dati, il sistema di impianto a1 è stato utilizzato più degli altri. Gli impianti a vite sommersa a1 (vedi Figura 2) sono stati utilizzati dal 1989, sia in creste guarite che come impianti post-estrattivi immediati. Si tratta di impianti ad esagono esterno e connessione standard (compatibile con la componentistica di numerose ditte) con nocciolo di calibro 3 mm. e spire da 3,8 e 4,5 mm., con superficie rugosa della parte endoossea (figure 3-6).

     

    Caratteristiche dell’impianto: l’impianto è provvisto di spire pronunciate che consentono uno stabile ancoraggio anche nei tessuti poco densi, mentre la forma arrotondata dell’apice dell’impianto non è aggressiva nei confronti dei tessuti ed è adatta anche ad interventi in cui è previsto il dislocamento apicale della corticale profonda. I 3 mm. coronali dell’impianto sono lisci per evitare l’accumulo di placca e favorire l’adesione dei tessuti molli.

     

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    La percentuale di successo globale con questo impianto è stata del 96,4 % (1443/1496), la percentuale di successo a 5 anni è stata del 98,7 % (1083/1097), la percentuale di successo ad 8 anni è stata del 97,0 % (717/739), la percentuale di successo a 10 anni è stata del 95,9 % (426/444). Gli impianti sono stati utilizzati sia in situazioni anatomiche normali che in situazioni di atrofia. Un piccolo studio sul carico immediato con questi impianti è stato fatto nel periodo 2000-2005, su 29 impianti. Due impianti sono stati persi, per un survival rate del 93,1 %.

     

    Altri impianti di buona qualità dal disegno analogo, come ad esempio gli impianti S1 (figura 7), anche se avevano buone percentuali di successo a lungo termine, sono stati abbandonati perché superati dal punto di vista protesico. Gli impianti S1 erano a superficie liscia(28,29).

     

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    Dal 1995, gli impianti a vite sommersa sono stati utilizzati anche con contenzione immediata(30,31), con la finalità di ottenere un risultato di eccellenza dei tessuti molli in un solo intervento. I monconi di guarigione sono stati avvitati agli impianti, per poter riposizionare immediatamente i tessuti molli attorno ad essi. Dopo aver eseguito le suture, i monconi di guarigione sono stati uniti tra di loro con un filo di titanio, saldato utilizzando la saldatrice endorale di Mondani (figura 8). Questo è stato fatto per evitare lo svitamento dei monconi di guarigione, per dare agli impianti la miglior stabilità utile ad opporsi alla pressione linguale(32) e per condizionare da subito in modo ottimale tessuti molli.

     

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    Gli impianti a vite sommersa m1 (vedi Figura 2), versione sommersa degli impianti m3 (vedi Figura 2) descritti più avanti(33) sono stati utilizzati sia in creste guarite che come impianti post-estrattivi immediati dal 1995 al 2001. Sono stati abbandonati perché non più in vendita.  Avevano una percentuale di successo globale del 94,3 % (84/89), una percentuale di successo a cinque anni del 94,3 % (84/89), una percentuale di successo ad otto anni del 96,0 % (73/76), una percentuale di successo a 10 anni del 94 % (47/50).

     

    Gli impianti a vite sommersa a1Wide di ampio diametro (vedi Figura 2) a superficie rugosa e ultimi tre mm. di superficie coronale liscia(34), sono utilizzati come post-estrattivi immediati dal 1997 (figure 10-12).

     

    Caratteristiche dell’impianto: questi impianti sono l’evoluzione di ampio diametro degli impianti a1. Le caratteristiche di superficie e la connessione protesica sono le stesse. Il nocciolo ha un calibro di 4,5 mm, mentre le volute possono avere ampiezze di 5,5 o 7 mm. La percentuale globale di successo è stata del 98,3 % (60/61). Agli sbarramenti dei 5 anni (47/47) e 8 anni (20/20) si è ottenuta la percentuale del 100 %, mentre un impianto è stato perduto prima dei 10 anni (10/11) per un 90,9 % di successo.

     

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    Diciassette casi di atrofia severa della mandibola sono stati trattati dal 1997 con una coppia di impianti a vite sommersa a1 (calibro 3,8 o 4,5) (35)  e un’overdenture vincolata agli impianti tramite O-Rings (figura 13). Un solo impianto è stato perso e sostituito dopo 6 anni di funzione. La percentuale globale di successo è stata del 97 % (periodo 1997-2006).

     

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    Impianti a vite non-sommersa

    Il numero complessivo di impianti a vite non sommersa utilizzati è stata di 215. La percentuale di successo globale è stata del 85,5 % (184/215). Gli impianti a vite non sommersa b2 (vedi Figura 2) sono stati utilizzati nel decennio 1991-2001 (figure 14-15).

     

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    Caratteristiche dell’impianto: questi impianti, presentati alla fine degli anni ’80, furono gli antesignani dei più diffusi impianti non-sommersi, dotati di un colletto a tronco di cono rovesciato e di connessione ad esagono interno. La loro superficie era completamente liscia. Gli impianti b2 hanno avuto una percentuale globale di successo del 84 % (163/194), una percentuale di successo a cinque anni del 95,5 % (172/180), una percentuale di successo ad otto anni del 94,5 % (139/147), una percentuale di successo a dieci anni del 86,1 % (87/101). Come si può notare, gli insuccessi con questi impianti sono aumentati dopo lo sbarramento degli otto anni. E’ importante sottolineare che sono stati utilizzati in molti casi di atrofia posteriore e questo ovviamente non ne ha facilitato la durata a lungo termine. In ogni modo, per il fatto che questi impianti non sono più in vendita dal 2001, sono stati sostituiti dagli impianti d2 (vedi Figura2) nella pratica professionale dell’autore del presente articolo.

     

    Da segnalare l’impiego di impianti a2  (vedi Figura 2) dotati della forma endoossea a e di un profilo emergente lucido tale da assecondare la forma dei picchi ossei inter-prossimali(36), usati in numero esiguo, non tale quindi da consentire un adeguato rilievo statistico.

     

    Impianti a vite in monoblocco (utilizzati dal 1990)

    Il numero complessivo di impianti a vite in monoblocco utilizzati è stato pari a 2199. La percentuale di successo globale è stata del 94,0 % (2068/2199). Questi impianti sono stati utilizzati con il carico immediato, in ogni situazione anatomica. Gli impianti in monoblocco sono adatti a trattare con il carico immediato anche le atrofie di spessore, perché, essendo in titanio pieno, possono essere anche di calibro inferiore ai 3 mm.. Se usati in condizioni anatomiche di atrofia e con il carico immediato tutti gli impianti hanno percentuali di successo meno entusiasmanti rispetto a quelli inseriti in condizioni di normalità e con il carico differito. Tuttavia le differenze di percentuale di successo non sono così sensibili e legittimano l’impiego del carico immediato qualora ve ne sia necessità. Con La contenzione degli impianti si aumenta la probabilità di successo con il carico immediato. In caso di insuccesso si è spesso risolto il caso sostituendo l’impianto con un altro impianto. Gli impianti a vite in Monoblocco g3 (vedi Figura 2) e f3 (simile a g3) sono stati utilizzati sia in creste guarite che come impianti post-estrattivi immediati, nella zona inter-foraminale e nella zona anteriore superiore, sia in condizioni normali che in di atrofia. Caratteristiche dell’impianto g3: una delle peculiarità di questa vite è il fatto di essere costruita con titanio di grado 2, di avere da 3 a 5 volute apicali ed uno stelo sottile. Queste caratteristiche lo rendono particolarmente elastico e quindi compatibile con il modulo di elasticità dell’osso e curvabile meccanicamente in caso di necessità. La vite g3 è stata concepita per il bicorticalismo, ossia per raggiungere la corticale opposta al foro di inserzione(37-40). E’ un impianto a superficie liscia. E’ stato sempre utilizzato per il carico immediato (figure 16-17). La percentuale di successo globale è stata del 95,8 % (697/724), la percentuale di successo a cinque anni è del 97,1 % (341/351), a otto anni è del 92,4 % (196/212), a dieci anni è del 90,0 % (126/140).

     

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    Gli impianti f3 (Figura 18) sono viti simili alla vite g3, ma in titanio grado 4, più rigido(5). Sono stati sempre utilizzati per il carico immediato. La percentuale di successo globale è stata del 87,5 % (42/48), la percentuale di successo a cinque anni è stata del 93,1 % (41/44), a otto anni è stata del 86,3 % (19/22).

     

    Gli impianti a vite in monoblocco m3(33)  (vedi Figura 2) sono stati utilizzati dal 1991 soprattutto come impianti post-estrattivi immediati, nella zona inter-foraminale e nel settore superiore posteriore. 

     

    Caratteristiche dell’impianto: le volute poco pronunciate rendono questo impianto particolarmente adatto al tessuto osseo denso. La scanalatura spiroidale che si diparte dall’apice dell’impianto consente la raccolta dei frammenti di trabecole ossee tagliate permettendo che l’avvitamento avvenga in un foro sotto-dimensionato rispetto al nocciolo della vite. I frammenti ossei raccolti costituiscono una sorta di innesto che favorisce la stabilizzazione dell’impianto e, secondo l’autore, accelerano i tempi di guarigione (figura 19).

     

    Schermata 2017-08-01 alle 22.05.18.jpg

     

    Questi impianti, usati anche in situazioni di estrema atrofia, hanno avuto una percentuale di successo globale del 89,0 % (707/794), una percentuale di successo a cinque anni del 93,2 % (626/671), a otto anni è del 90,3 % (506/560), a dieci anni del 86,5 % (385/445).

     

    Gli impianti a vite in monoblocco t3 (vedi Figura 2) sono stati utilizzati in creste guarite e come post-estrattivi immediati nel settore posteriore inferiore e superiore e nel settore anteriore superiore, dal 2000, per il carico immediato.

     

    Caratteristiche dell’impianto: si tratta di un impianto a vite dotato di ampie volute per tutta la sua lunghezza, costruito in titanio grado 2, ideato per il carico immediato(41-43). La percentuale globale di successo dell’impianto t3 è stata del 95,7 % (91/95). Dato l’impiego anche in situazioni limite e data la versatilità dell’impianto, con il quale si possono risolvere in modo brillante anche le zone estetiche, è tuttora in uso(Figure 20 e 21). La tecnica di inserzione necessita di esperienza.

     

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    Gli impianti a vite n3 sono simili agli impianti a vite g3, ma più lunghi (35 mm.), con superficie endoossea rugosa e maggiore rigidità dello stelo (titanio grado 4). La maggiore lunghezza rende necessario un titanio più rigido per permettere la rotazione nell’osso senza torsioni. Sono stati utilizzati, dal 1999, ove fosse necessaria la lunghezza di 35 mm. per raggiungere il bicorticalismo e come impianti post-estrattivi immediati sia nel settore inter-foraminale che nel settore posteriore superiore (Figura 22). La loro percentuale globale di successo è stata del 98,2 % (113/115).

     

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    Gli impianti a vite in monoblocco a3 (vedi figura 2) sono stati utilizzati in creste ossee guarite e come impianti post-estrattivi immediati in tutte le zone della bocca, dal 1998.

     

    Caratteristiche dell’impianto: si tratta della versione in monoblocco dell’impianto a1.

    La loro percentuale globale di successo è stata del 97, 9 % (242/247). Dopo 5 anni, la percentuale di successo era del 98,9 % (91/92). I 26 impianti inseriti oltre 8 anni fa e i 10 impianti inseriti oltre 10 anni fa non hanno avuto perdite (vedi figure 23 e 24).

     

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    Gli impianti a vite in monoblocco a3Wide di ampio diametro (5,5-7,0-9,0 mm.) (vedi figura 2) sono utilizzati, dal 2001, per trattare immediatamente siti post-estrattivi nell’arcata superiore posteriore, con una tecnica di dislocamento alveolare (34).

     

    Caratteristiche dell’impianto: si tratta della versione in monoblocco dell’impianto a1Wide

    La loro percentuale globale di successo è stata del 99,3 % (142/143).

     

    Carico immediato di impianti post-estrattivi immediati

    I dati su 553 impianti post-estrattivi immediati di denti caricati immediatamente, raccolti durante il periodo 1995-2005, mostrano un survival rate del 98,3 %. In alcuni casi, dal 1999, impianti inseriti subito dopo estrazione di impianti sono stati immediatamente caricati, con buoni risultati(34). Questo è stato possibile utilizzando impianti a vite in monoblocco di ampio diametro (figura 25).

     

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    Carico immediato di impianti post-estrattivi immediati di impianti

    Dai dati su 45 impianti caricati immediatamente, post-estrattivi immediati di impianti, raccolti durante il periodo 1999-2005, risulta un survival rate di 97,7 %.

     

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    Impianti a lama sommersa (utilizzati dal 1990)

    Gli impianti a lama sommersa (vedi figura 2, j1) hanno indicazioni limitate. Infatti, il calice filettato nel quale il moncone è destinato ad essere avvitato deve avere un diametro di almeno 3,5 mm. per avere adeguate caratteristiche di resistenza meccanica alla frattura. Di conseguenza, questi impianti, sono adatti a creste ossee sottili solo in profondità, perché in superficie devono essere abbastanza ampi da accogliere il calice(44). Inoltre, operativamente è abbastanza difficile creare la sede in cui far alloggiare perfettamente il calice. L’impiego di questi impianti nelle creste posteriori è stato abbandonato dall’autore nel 2001 a causa di alcuni cedimenti del moncone nei settori posteriori, dovuti probabilmente all’eccesso di stress occlusale e masticatorio in rapporto all’esiguità dello spessore del metallo nella zona della connessione. Ad onor del vero, va precisato che numerosi casi eseguiti nel settore anteriore sono in condizioni eccellenti dal punto di vista estetico e funzionale a distanza di molto tempo dal carico dell’impianto (Figure 26-27).

     

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    Impianti a lama in monoblocco (utilizzati dal 1989)

    Gli impianti a lama in monoblocco (vedi figura 2, l3 ) sono stati impiegati per trattare creste sottili sia con carico differito che con carico immediato. Sono stati utilizzati sia in creste profonde che in creste atrofiche. La loro percentuale globale di successo è stata del 94,1 % (488/522), la loro percentuale di successo a cinque anni è stata del 98,9 % (369/373), ad otto anni del 89 % (261/293), a dieci anni del 86,2 % (200/232). L’analisi dei dati mostra risultati molto buoni a cinque anni e risultati peggiori ad otto e dieci anni. Questo dipende forse dagli impianti inseriti nei settori posteriori atrofici, che abbinano un cattivo rapporto corona/radice con il massimo sforzo masticatorio. Per ottenere il migliore risultato protesico è necessario seguire nel modo corretto il protocollo di Linkow(45) (figure 28-29).

     

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    Per 5 anni (dal giugno 2000 al giugno 2005), è stato eseguito uno studio sul carico immediato applicato su un impianto a lama in monoblocco posizionato nella zona posteriore inferiore (zona sesto-settimo) e un impianto a vite in monoblocco posizionato in zona quarto, anteriormente rispetto al forame mentoniero (figura 30).

     

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    I due impianti sono stati messi in contenzione immediata con una barra di titanio saldata, utilizzando per la saldatura la Saldatrice Endorale di Mondani e caricati immediatamente con una protesi provvisoria. Sono state operate ventisette emi-mandibole con 27 lame in monoblocco e 27 viti in monoblocco. In un caso di osteoporosi, l’impianto a lama diventò dolente alla pressione occlusale e, di conseguenza, fu stabilizzato saldando al moncone della lama un impianto ad ago bicorticale profondo, che ha risolto il problema immediatamente e stabilmente (Figura 22). Si è potuta quindi applicare la protesi definitiva con un lieve ritardo rispetto al previsto.  In due casi, si è resa necessaria la sostituzione dell’impianto a vite con un’altra vite più ampia, che è stata a sua volta caricata immediatamente assieme all’impianto a lama posteriore. I dati al 2008 di questo studio sono stati quindi:

    • 100 % di successo con impianti a lama caricati immediatamente nella zona sesto-settimo (uno è stato “salvato” utilizzando un impianto ad ago). 96,2 % (26/27) se si considera come fallito l’impianto dolente, poi guarito.
    • 93,1 % (27/29) di successo con impianti a vite in monoblocco caricati immediatamente nella zona del quarto.

     

    E.D.E. (Estensione Distale Endoossea)

    Dal 18 giugno 1993, iniziai ad utilizzare una tecnica di inserzione dell’impianto a lama particolarmente conservativa, basata sulla penetrazione dell’impianto da una porta d’entrata aperta mesialmente, in modo da collocarlo al di sotto di tessuti intatti(46). L’impianto più idoneo per questa tecnica è la lama da ramo di Linkow (47) e simili (l3ramus), con la quale si riesce ad inserire quasi tutta l’estensione distale dell’impianto al di sotto di tessuti intatti (figure 31-32).

     

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    Questa tecnica è stata pubblicata in Italia nel 2001(46) e all’estero nel 2002. Analizzando il periodo 1993-2005, il successo a cinque anni con questa tecnica è stato del 96% (49/51). Dal momento in cui iniziai ad utilizzare impianti da ramo, questa tecnica ha raggiunto il suo massimo perfezionamento. Otto impianti a lama da ramo, inseriti con la tecnica EDE, sono stati caricati immediatamente dal 2002, con totale successo a 5 anni.

     

    Impianti ad ago

    Gli impianti ad ago (vedi figura 2, p3) sono stati utilizzati in casi particolarmente difficili. Si sono rivelati adatti a trattare, con carico immediato, alveoli post-estrattivi con poco osso apicale residuo (figure 33-34). In altri casi sono stati utilizzati per stabilizzare immediatamente impianti a vite o a lama. In taluni casi si sono sfruttate le loro proprietà di raggiungere la corticale profonda per stabilizzare impianti che ne avevano necessità (figura 22).

     

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    Gli aghi nel settore distale inferiore

    L’applicazione più idonea per gli impianti ad ago è nel trattare creste distali atrofiche con osso D3-D4. Impiegando una chirurgia adatta, è possibile passare a fianco del nervo alveolare inferiore, raggiungendo la corticale profonda, senza problemi di sensibilità e con il carico immediato(figura 35). Questa tecnica è molto sicura e predicibile(10,12,14,48).

     

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    I risultati statistici ottenuti utilizzando questa tecnica con il carico immediato nei casi di atrofia posteriore inferiore sono molto buoni. Sono stati utilizzati 334 impianti ad ago in 103 emiarcate atrofiche, passando a fianco del nervo alveolare inferiore, nel periodo 10.1.1996 – 8.3.2009 (data la rilevanza chirurgica del passaggio a fianco del nervo, indipendente tra le due emiarcate, si considera il trattamento per emiarcata, quindi due emiarcate quando l’intervento prevede l’intera arcata). Questi impianti sono stati saldati immediatamente tra di loro e caricati immediatamente. Sono stati persi 2 impianti, con una percentuale di successo globale del 99,3 % (332/334). Nessuno dei pazienti ha avuto un’anestesia permanente del labbro. Solo il 2,3 % dei pazienti ha avuto un’anestesia temporanea superiore ai due mesi, poi regredita.

     

    Risultati

    I pazienti considerati in questo studio sono stati classificati in gruppi per età. In Tavola 3 è possibile osservare che il 3,5 % degli interventi sono stati fatti a pazienti che avevano tra i 21 e i 30 anni ; l’ 8% tra 31 e 40; il 15,7% tra 41 e 50; il 27% tra 51 e 60; il 29,2% tra 61 e 70; il 15% tra 71 e 80; l’1,5% tra 81 e 90; lo 0,05% tra 91 e 100.

     

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    A conferma di quanto sostenuto da altri autori, non si è rilevata alcuna differenza di percentuale di successo in relazione alle diverse età dei pazienti. Vi è invece differenza nel decorso post-operatorio, più eclatante nei giovani rispetto agli anziani.

     

    Per quanto riguarda i risultati del trattamento con i diversi impianti di uso più frequente, lo studio statistico ha dato risultati interessanti sulle previsioni di successo a breve e di durata nel tempo dei diversi tipi d’impianto. Gli impianti a lama one-piece (mono-blocco) l3 hanno dato la migliore percentuale di successo a 5 anni, con una flessione tra il 5° e l’8° anno. Si è osservato che il processo di infiammazione perimplantare attorno all’impianto a lama progredisce in genere lentamente ed in modo asintomatico, lasciando il tempo di organizzare la soluzione del problema senza crisi improvvise.

    Gli impianti a vite sommersa si sono dimostrati leggermente meno affidabili nel periodo precedente i 5 anni, ma hanno mantenuto un andamento stabile nel tempo, con una trascurabile flessione della percentuale di sopravvivenza. Risultati molto buoni si sono ottenuti con l’impianto sommerso di tipo a1.

     

    Gli impianti a vite non-sommersa b2 hanno mostrato un andamento buono nei primi 8 anni ed una flessione tra gli 8 e i 10 anni.

     

    Gli impianti a vite in mono-blocco g3 e m3 hanno avuto un risultato soddisfacente, con una flessione progressiva senza particolari ripidità, soprattutto in considerazione del fatto che sono stati utilizzati per il carico immediato anche in situazioni difficili.

     

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    Discussione

    In base al rilievo statistico, si sono desunte alcune considerazioni, qui di seguito raggruppate per argomenti:

     

    Forma e superficie dell’impianto:

    1. Forma cilindrica o conica dell’impianto. Alcuni autori sono fautori degli impianti conici, altri degli impianti cilindrici. Durante questi 20 anni di pratica sono state utilizzate diverse forme d’impianto. Ci sono due aspetti che vanno tenuti in considerazione: 1) la procedura chirurgica; 2) le aspettative di successo. L’impianto conico permette un migliore profilo protesico negli ampi diametri. Con gli impianti conici, è molto più facile trovare ed ingaggiare il foro chirurgico, perché l’apice dell’impianto è più piccolo del foro. Per converso, è necessario essere molto precisi nella misurazione e nella preparazione del foro, perché l’impianto deve adattarvisi perfettamente, con poco margine di correzione della profondità d’inserzione. Con gli impianti cilindrici, è possibile approfondire l’impianto alcuni millimetri oltre la misura calcolata, anche quando fosse stata calcolata in modo impreciso. Una terza possibilità prevede l’uso di impianti con stelo cilindrico, ma spire coniche. Questi impianti, al pari dei conici, trovano facilmente il foro di accesso ed hanno caratteristiche analoghe agli impianti cilindrici. Gli impianti conici vanno incontro, nell’impiego ad ampio spettro nelle diverse tipologie di osso ed anatomia, a perdita ossea verticale maggiore rispetto ai cilindrici. La scelta che deriva dall’esperienza di questo studio statistico, è di usare impianti con collo cilindrico, spire cilindriche o coniche ed un collo liscio, utile ad evitare l’accumulo di placca in caso di perdita ossea  e prevenire così la progressione verso l’esposizione delle spire.
    2. Superficie implantare liscia o rugosa. Per 10 anni, nel medesimo tipo di casi clinici, sono stati utilizzati impianti a lama lisci e rugosi. La rugosità dell’impianto, attuate le modifiche necessarie per adattarlo all’anatomia (figura 27), era ottenuta per sottrazione mediante sabbiatura e la superficie era poi ripulita mediante vaporizzazione a 120° e successiva sterilizzazione (procedura abbandonata il 18.6.1998, data in cui la regolamentazione CE ha reso controversa la possibilità di agire sulla superficie del prodotto). La rugosità così ottenuta era di 1,5m , in linea con la produzione degli impianti rugosi dell’epoca (es: Bonefit). A livello statistico, non è stata notata alcuna differenza tra gli impianti lisci e quello con la rugosità così ottenuta. Questo potrebbe far ipotizzare che, essendo questi impianti stati inseriti seguendo i principi del bicorticalismo, la maggior risposta ossea per superfici rugose descritta in letteratura(49) sia importante per gli impianti non bicorticali, mentre per gli impianti bicorticali sia scarsamente influente. Oggi alcuni autori sostengono che la superficie rugosa sia migliore per il carico immediato, altri dicono l’opposto. Gli impianti rugosi hanno un migliore attrito durante l’inserzione chirurgica ed una migliore osteofilia, ma vanno più soggetti a colonizzazione batterica sulla loro superficie in caso di esposizione all’ambiente esterno.
    3. Spire ampie o piccole. Gli impianti con spire piccole sono stati introdotti per trattare prevalentemente la zona del mento, dove l’osso è di solito particolarmente denso. In zone in cui invece l’osso non è denso, possono avere problemi di osteointegrazione(16). Gli impianti a spire ampie sembrano essere più adatti a trattare sia i casi con osso denso che quelli con osso più rarefatto.
    4. Forma di impianto migliore. Le diverse forme di impianto hanno indicazioni diverse. Le diverse forme, correttamente utilizzate, permettono di trovare la soluzione più adatta alle diverse situazioni anatomiche. Gli impianti a vite sono quelli che più somigliano alla forma del dente naturale ed occupano il minore spazio in senso mesio-distale. Gli impianti a lama sono molto utili nelle creste sottili, perché consentono di mantenere l’integrità dell’osso e possono sovente essere caricati immediatamente, cosa che non è possibile quando si attui uno split-crest per inserire una vite. Per converso, l’uso di un impianto a lama in una cresta ampia può condurre all’insuccesso, soprattutto se non raggiunge la corticale profonda. In questi casi è in genere più indicata una vite. Le lame sono anche utili nelle creste posteriori inferiori ampie e poco dense, ove la conformazione della cresta a) consenta di appoggiare in più punti sulla linea milo-ioidea (bicorticalismo); b) permetta di incunearsi, sfruttando l’estensione dell’impianto, tra la corticale superiore del canale alveolare e quella superiore della cresta ossea(46). Esaminando le statistiche, si è osservato che il fallimento degli impianti a vite è più frequente nel periodo che segue di poco l’intervento, prima della protesizzazione definitiva. Al contrario, gli impianti a lama vanno regolarmente incontro a successo, ma sono più facilmente soggetti a riassorbimento osseo anche a distanza di 5 e più anni dall’intervento. Solo il 9 % degli impianti a lama falliti sono stati persi prima di 5 anni dal posizionamento, contro il 46 % degli impianti a vite (di cui il 54 % a vite sommersa e il 40 % a vite emergente). Per le lame, il passaggio dalla griglia dei 5 anni a quella degli 8 anni denota un peggioramento significativo. Va tenuto in considerazione che gli impianti a lama sono utilizzati in situazioni difficili, spesso in creste poco profonde, oltre che sottili. Se utilizzati in creste sottili, ma profonde, non danno problemi di fallimento anche a distanza di molti anni (Figura 27). Gli impianti ad ago costituiscono una soluzione sicura nelle creste posteriori inferiori atrofiche e come impianti singoli, situazioni nelle quali hanno un’ottima predicibilità di successo. Le statistiche che li riguardano peggiorano quando sono utilizzati per cercare di salvare impianti che stanno fallendo, ad esempio saldandoli ad un impianto divenuto sintomatico con la saldatrice endorale di Mondani. In conclusione, la conoscenza di più tecniche di impianto consente di offrire al paziente le più ampie possibilità di cura.
    5. Utilità dei sommersi. Gli impianti sommersi sono particolarmente utili per trattare i settori posteriori, in cui l’azione della lingua può portare ad insuccesso un impianto emergente ed anche un impianto non-sommerso che debordi nel cavo orale. Sono stati concepiti per il carico differito, ma sono utilizzabili anche per il carico immediato, con la possibilità di programmare la protesi a distanza di tempo. Offrono ottime soluzioni protesiche, ma presentano il problema della connessione, tuttora irrisolto. Infatti l’osso non sopravvive al di sopra della connessione e questo causa problemi soprattutto nell’area estetica, dove le papille perdono il tessuto osseo inter-prossimale di sostegno, con un effetto di pseudo-tasca(36). Anche se numerosi studi sono oggi in corso su questo argomento(50) e alcune forme d’impianto sono state presentate per assecondare il profilo papillare (vedi Figura 2, a2), la soluzione del problema non è stata ancora raggiunta. Gli impianti in mono-blocco, pur essendo più impegnativi nella realizzazione della protesi, sono provvisti della continuità del metallo necessaria alla sopravvivenza dell’osso.
    6. Rapporto tra il modulo di elasticità dell’osso e quello dell’impianto. Il titanio ha un modulo di elasticità che si avvicina di più a quello dell’osso rispetto a quello di altri materiali, quali ad esempio acciaio, allumina,  zirconia. Il modulo di elasticità del titanio è fortemente influenzato dal grado e dal diametro dell’impianto. Il grado del titanio utilizzato in implantologia orale varia tra 2 (più elastico) e 5 (più rigido). Numerosi studi (51,52) hanno dimostrato che la zona del 4° - 5° inferiore va incontro a deformazione elastica. Tale deformazione potrebbe essere all’origine degli insuccessi in questa zona, per l’assenza di possibilità di contatto stabile tra l’impianto che è rigido e l’osso che si deforma. Di conseguenza è ipotizzabile che  in questa sede sia consigliabile utilizzare un impianto di piccolo calibro e di basso grado. L’esperienza clinica di questo studio lo conferma.
    7. Rapporto con la corticale ossea. L’importanza del bicorticalismo, scoperta da Dino Garbaccio (37-40) alla fine degli anni ’60, è oggi universalmente riconosciuta (53,54). Il bicorticalismo va ricercato con ogni impianto endoosseo, in quanto migliora il rapporto radice/corona e riduce l’influenza della differenza di densità dell’osso spugnoso sulla predicibilità di successo della terapia con impianti. Nel settore posteriore inferiore, si raggiunge il bicorticalismo anche sulla linea milo-ioidea. Negli impianti post-estrattivi, l’osso corticale dell’alveolo consente di ottenere un solido ancoraggio.
    8. Ingresso nella corticale del seno mascellare. Qualche volta è addirittura consigliabile. Quando, per esempio, le pareti alveolari sono andate perdute, è conveniente “mordere” l’osso corticale in profondità per ottenere migliore stabilità (figura 25). Per facilitare l’inserzione dell’impianto sono utili gli appositi scalpelli circolari a becco di flauto da rialzo parcellare di seno. Utilizzando una tecnica appropriata, ci si può aspettare che il decorso post-operatorio sia privo di sequele. E’ comunque consigliabile un’antibiotico-tarapia dopo l’intervento.
    9. Contiguità con il nervo alveolare inferiore (Rapporto tra impianti e nervo alveolare inferiore (n.a.i.)). L’esperienza di oltre 300 impianti ad ago bicorticali profondi inseriti nel periodo 1996-2009 nel settore posteriore inferiore attesta che, utilizzando una tecnica appropriata, si può passare senza sequele a fianco del nervo alveolare inferiore(48). L’esperienza di questo studio è basata sul posizionamento di impianti sottili, con punta non tagliente e superficie liscia, inseriti a bassissima velocità (25-30 giri/min.) in creste scarsamente dense, senza uso di frese in profondità, perché certamente potrebbero invece arrecare un danno irreversibile al nervo. In alcuni casi, con le medesime accortezze, possono essere utilizzate anche viti a spire sottili. La TC è strettamente indicata per ridurre al minimo il rischio, peraltro remoto, di danno all’integrità del nervo. E’ ovviamente richiesta la necessaria esperienza professionale e l’accompagnamento da parte di colleghi esperti prima di affrontare ogni tecnica di passaggio a fianco del n.a.i.
    10. Trattamento delle creste inferiori atrofiche affette da osteoporosi. Un’esperienza di più di 13 anni utilizzando impianti ad ago bicorticali passanti a fianco del nervo alveolare inferiore ha dimostrato che è possibile trattare questo tipo di creste ossee caricando immediatamente gli impianti dopo il loro posizionamento. In 13 anni, sono stati inseriti, saldati tra di loro e caricati immediatamente oltre 300 impianti ad ago passanti a fianco del nervo alveolare inferiore fino a raggiungere la corticale profonda. Sono stati persi solo due impianti. Meno del 2,5 % delle emiarcate trattate è andata incontro ad una temporanea anestesia del labbro, poi scomparsa. In nessun caso è residuata un’anestesia permanente. La compliance del paziente con questa tecnica è molto buona, soprattutto se si paragona l’iter terapeutico subito dal paziente con le alternative proponibili per ottenere il medesimo risultato, ossia una protesi fissa supportata da impianti posizionati nel settore posteriore inferiore atrofico ed osteoporosico.
    11. Affidabilità dell’implantologia post-estrattiva immediata. L’analisi di più di 2000 impianti a vite inseriti subito dopo estrazione in 1092 interventi (periodo 8.3.1989 – 31.12.2006) ha dato le seguenti indicazioni: ottime percentuali di successo ottenute utilizzando l’alveolo come porta di accesso, ma poi oltrepassando la corticale profonda dell’alveolo, perforata con la fresa, per raggiungere il tessuto osseo sano più profondamente, fino a quando l’impianto raggiunge la corticale profonda. In questo modo, senza che sia necessaria la presenza di 4 pareti integre, l’impianto ottiene una notevole stabilità immediata, con due corticali stabilizzanti molto solide in superficie ed in profondità. Gli impianti così inseriti sono spesso adatti al carico immediato come, se non di più, degli impianti inseriti in tessuto osseo guarito da tempo. Molto spesso è conveniente perforare la corticale dell’alveolo non all’apice, zona dove è più facile che sia stata presente un’infiammazione cronica, ma in una delle pareti integre dei 2/3 apicali dell’alveolo. I risultati ottenuti con questa metodologia suggeriscono che il protocollo di d’Hoedt, basato sulla presenza di 4 pareti ed assenza di carico, sia applicabile solamente agli impianti post-estrattivi immediati destinati a sfruttare solo l’alveolo post-estrattivo senza approfondirsi in profondità per i quali tale protocollo è stato concepito(55).
    12. Carico immediato degli impianti post-estrattivi immediati. Non ci sono controindicazioni. Vanno valutate con attenzione le forze bio-meccaniche statiche e dinamiche e la stabilità dell’impianto, esattamente come si fa quando vengono caricati immediatamente gli impianti inseriti in creste guarite. Molte volte sono più stabili della media, perché hanno anche l’ancoraggio alla lamina dura dell’alveolo. In questo studio, sono stati caricati immediatamente più di 600 impianti, di cui 40 post-estrattivi immediati di impianti.
    13. Tecnica d’inserzione per gli impianti a vite. Un’esperienza su 4196 Impianti a vite (1782 sommersi, 215 non-sommersi, 2199 in monoblocco), con relativo studio statistico di 20 anni, ha dato indicazione che ci sono regole valide per tutti gli impianti. A) In primis, si suggerisce di far uso di frese metalliche ad alta velocità per aprire il foro superficiale e di approfondire il foro per alcuni millimetri, in modo da imporre la direzione scelta e da evitare il rischio che le seguenti frese a bassa velocità vengano attratte in una direzione diversa dall’osso meno denso. B) Il passaggio seguente prevede l’impiego di una fresa del calibro di 2-2,5 mm., a bassa velocità (25-30 RPM) raggiungendo l’osso corticale in profondità. C) A questo punto, è consigliabile controllare la posizione corretta con una radiografia endorale. D) Si può quindi continuare con le frese seguenti più grosse, prestando attenzione che l’ultima sia di calibro maggiore rispetto al nocciolo della vite per evitare la compressione dell’osso e minore rispetto alle spire, per avere adeguata stabilità. Se la forma dell’impianto lo impone, si allarga la sede superficiale per alloggiare il calice dell’impianto. Utilizzando una tecnica adeguata, è possibile posizionare impianti senza sequele anche in prossimità di strutture anatomiche delicate.
    14. Contenzione degli impianti. Molti studi (7-27) hanno dimostrato che la contenzione è importante per aumentare la probabilità di successo, soprattutto con il carico immediato. Il presente studio lo conferma. Il metodo più collaudato si basa sull’impiego della saldatura intra-orale secondo Mondani (7). Si possono unire insieme in contenzione impianti emergenti e sommersi (12,16,31). Dopo l’osteointegrazione, la contenzione può essere eliminata per eseguire la protesi definitiva.
    15. Carico immediato di impianti senza contenzione. Si può attuare se si deve caricare un impianto singolo, o impianti multipli ampi e profondi. Se invece ci sono situazioni anatomiche difficili la contenzione permette di ridurre al minimo la probabilità di insuccesso. A sostegno di questa tesi, si consideri anche il fatto che, quando un impianto inserito da poco in una cresta atrofica viene a staccarsi fortuitamente dalla contenzione, spesso diventa dolente al tatto per il braccio di leva che agisce su di esso. Se rimane staccato dagli altri, può essere perduto. Se viene subito rimesso in contenzione, la sintomatologia cessa immediatamente.
    16. Pericolo di frattura degli impianti emergenti curvati (Correzione meccanica del parallelismo dell’impianto). Da alcuni studi computerizzati su elementi finiti si trarrebbe la conclusione che sia pericoloso piegare gli impianti. I risultati clinici di questo studio non lo confermano(56). Questo avviene probabilmente perché gli studi computerizzati sono basati su ipotetiche curvature extra-ossee, come se gli impianti venissero piegati dopo l’osteointegrazione. Nella pratica clinica l’impianto viene piegato durante l’intervento, cosicché la parte curva viene osteo-integrata e, di conseguenza, non residua un punto debole extra-osseo (figure  36-39).

     

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    Gli impianti a vite destinati ad essere curvati devono essere in titanio grado 2, al massimo grado 3, per poterli piegare in bocca senza sforzo. Gli impianti a lama vengono invece piegati prima dell’inserzione nell’osso del paziente e possono quindi essere anche di grado superiore.

     

    Funzione e Protesi

    17. Principi protesici per impianti e denti. Le regole protesiche e le conseguenze dell’occlusione patologica sull’osso sono analoghe. Questi argomenti sono stati approfonditi dal professor Ugo Pasqualini nel suo testo sulle patologie occlusali(57), nel quale pubblicò la conferma clinica dell’applicabilità alle protesi su impianti di molte tesi sulle patologie occlusali   dentarie(58-61). L’esperienza di centinaia di casi di carico immediato con protesi fisse settoriali e arcate complete, anche su impianti post-estrattivi immediati ha confermato l’importanza determinante di una corretta gestione dell’occlusione statica   e dinamica sia nella fase della protesi provvisoria che in quella della protesi definitiva.

    18. Protesi fisse ancorate a denti e impianti. Premesso che sia il dente che l’impianto devono essere in eccellenti condizioni di salute, le protesi miste dente-impianto durano a lungo se ottemperano a 2 regole: 1)devono essere corte (max 4 elementi); 2)il pilastro implantare deve essere il distale. Nelle protesi fisse circolari in cui i pilastri siano in parte dentari, in parte implantari, si verifica spesso, a distanza di tempo, la periodontite dei pilastri dentari. In taluni casi i pazienti che vengono a controllo dopo molti anni si presentano con la protesi fissa ancorata ai soli impianti e con i denti ormai in stato di espulsione “appesi” al ponte. Questo è dovuto probabilmente al fatto che il dente è soggetto all’effetto ammortizzante dovuto alla presenza del legamento periodontale e quindi lavora meno dell’impianto, che ha invece un rapporto di anchilosi con l’osso (il dente non soggetto a carico va incontro ad indebolimento dell’osso che ospita l’alveolo, secondo quanto descritto in letteratura(58)).

    19. Numero di impianti sono necessari per eseguire un’arcata. In linea di principio sembrerebbe consigliabile un numero di impianti pari a quello dei denti. Qualora le condizioni anatomiche e funzionali lo permettano, si possono eseguire elementi singoli di impianto-protesi e quindi il numero degli impianti può essere pari a quello dei denti o addirittura superiore se si utilizza più di un impianto per dente. Da questo studio, emerge invece una distinzione per quanto riguarda le protesi fisse “circolari”, eseguite su impianti inseriti in creste guarite o su impianti post-estrattivi immediati. Nelle creste guarite poco dense, un eccessivo affollamento di impianti ha portato, in alcuni casi, a perdita ossea orizzontale. Probabilmente, in analogia con quanto descritto al punto 18 per i denti, gli impianti meno soggetti a carico possono andare incontro a rarefazione e perdita dell’osso includente. Le micro-vibrazioni originanti dalla funzione potrebbero essere all’origine del problema. Questo non deve indurre a ridurre eccessivamente il numero dei pilastri, perché anche questa è una condizione che può essere sfavorevole. Se infatti, in presenza di un numero esiguo di pilastri, un impianto va incontro a patologia, tutta la statica della protesi viene ad essere in pericolo. Un numero di impianti pari ad 8-10 sembra essere idoneo per una protesi fissa “circolare” in cresta guarita. Nei post-estrattivi, l’esperienza di questo studio indica che il problema non sussiste. Sembrerebbe che l’ancoraggio alla lamina dura li proteggesse dalla perimplantite e rivitalizzasse l’alveolo (figure 40-42).

     

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    20. Tempi di realizzazione della protesi definitiva. La relativa frequenza di insuccessi precoci con gli impianti a vite rende consigliabile attendere di avere la conferma de successo dell’impianto, prima di passare ad eseguire la protesi definitiva. Prima della protesizzazione definitiva è molto più facile porre rimedio ad eventuali inconvenienti. Le modificazioni cui vanno incontro i tessuti molli dopo l’intervento richiedono tempi adeguati per la loro stabilizzazione. La corsa all’accelerazione dei passaggi può rappresentare un rischio  per il paziente, spesso non sufficientemente giustificato.

     

    Tutti i dati raccolti dopo 5, 8 e 10 anni vanno messi in relazione con la difficoltà della situazione anatomica in cui sono stati utilizzati. Ovviamente, ci si può aspettare che forma d’impianto che è normale utilizzare in creste ampie, profonde e dense abbiano statistiche di successo migliori rispetto a forme d’impianto che è normale utilizzare in creste ossee sottili, atrofiche e vuote. Alcuni criteri di successo descritti nella letteratura internazionale sembrano essere troppo semplificativi, perché tendono ad escludere impianti che hanno statistiche di successo lontane dal 100%, solo perché si usano nei casi difficili, nei quali però hanno il miglior riscontro di successo in assoluto rispetto ad ogni altra opzione. Escludendo questi impianti, i pazienti che hanno situazioni anatomiche e funzionali difficili non potrebbero più sperare di essere trattati con una protesi fissa su impianti. Molte situazioni estreme sono risolvibili in modo brillante e sicuro utilizzando combinazioni di impianti.

     

    Quando, per fare uno studio clinico su un nuovo impianto, vengono selezionate situazioni anatomiche ideali per densità e disponibilità, si può concludere, se i risultati sono buoni, che il sistema di impianto analizzato ha una brillante statistica in condizioni anatomiche ideali, senza che questo legittimi ad estendere i risultati dello studio ad altre situazioni. Le situazioni ideali non costituiscono una percentuale significativa delle situazioni anatomiche che ogni dentista vede nel suo studio. Le medesime considerazioni dovrebbero essere fatte sulle soluzioni protesiche. Una soluzione protesica su impianti standard oggi utilizzata ovunque è l’ “overdenture” su impianti a vite posizionati nella zona inter-foraminale. Le confortanti statistiche di successo che in tutto il mondo sono ottenute usando questa tecnica non significano che questa soluzione sia realmente idonea a trattare l’edentulia dei pazienti. Infatti, non è possibile paragonare l’ “overdenture” (protesi mobile vincolata) con la protesi fissa. La protesi fissa consente al paziente di avere denti che sono in grado di ripristinare una funzione masticatoria simile a quella naturale e, soprattutto, di controbilanciare l’azione dei muscoli elevatori, ripristinando la salute dei muscoli masticatori e delle articolazioni temporo-mandibolari.

     

    E’ quindi necessario considerare in modo approfondito la fisiologia dell’apparato stomato-gnatico per descrivere al paziente con precisione la proposta terapeutica.

     

    E’ particolarmente importante distinguere le statistiche di successo dei casi ideali, da quelle dei casi difficili. Alcune forme d’impianto non hanno statistiche di successo brillanti perché vengono utilizzate solo nei casi difficili per i quali sono adatte, nei quali sono la soluzione migliore e più sicura. Queste forme di impianto sono preziose per curare una parte significativa dei pazienti. E’ quindi indispensabile studiarle, svilupparle e migliorarle.

     

    Conclusioni:

    Uno studio di questo tipo consente di ipotizzare alcune risposte a quesiti ricorrenti sull’implantologia e di concepire uno schema operativo che aiuti nella scelta dell’impianto nei diversi casi, riducendo i rischi di fallimento. Dallo studio emerge l’indicazione ad utilizzare impianti di forma adatta al trattamento delle diverse situazioni anatomiche, prediligendo una superficie rugosa per la parte che è certamente destinata a rimanere inclusa dall’osso e liscia per il contatto con i tessuti molli e per la parte che può prevedibilmente andare incontro ad esposizione. L’importanza del bicorticalismo è confermata, sia per il migliore rapporto radice/corona che per l’appoggio stabile alla corticale profonda, particolarmente prezioso in condizioni di osso poco denso. Negli impianti post-estrattivi immediati la lamina dura dell’alveolo costituisce un valido punto di ancoraggio. Gli impianti vanno seguiti per molti anni, perché gli insuccessi possono sopravvenire a distanza di anni dall’osteointegrazione. In particolare, si è notato che gli impianti a vite in genere vanno più incontro a problemi precoci, mentre gli impianti a lama danno una pressoché totale certezza di successo a 5 anni, ma possono andare incontro a progressivo fallimento tra i 5 e i 10 anni. La presenza di zone elastiche nella mandibola induce alla scelta, per queste zone, di impianti dotati di modulo di elasticità tale da assecondare la flessione dell’osso, quindi sottili e di titanio di basso grado. Gli impianti post-estrattivi immediati vanno fatti dopo adeguata toilette chirurgica dell’alveolo. Qualora siano stabili, non c’è controindicazione a caricarli immediatamente. Utilizzando una tecnica accorta e prudente, si può penetrare la corticale del seno mascellare e lambire senza sequele il canale alveolare inferiore. I casi di osteoporosi possono quindi essere trattati raggiungendo la corticale profonda passando con prudenza a fianco del nervo alveolare inferiore. Gli impianti a vite hanno principi universali di preparazione del foro chirurgico, con piccole varianti dipendenti dalla forma. La contenzione immediata degli impianti è particolarmente utile nel carico immediato, soprattutto nei casi di atrofia. Gli impianti in monoblocco di titanio possono essere curvati durante l’intervento per ovviare ai difetti di parallelismo. E’ sempre importante rispettare i principi dell’occlusione statica e dinamica. Nel carico immediato, il mancato rispetto di questi principi porta ad insuccesso precoce. Mentre in linea generale è preferibile evitare protesi ancorate a denti ed impianti, questo è possibile per ponti di 3-4 elementi, con pilastro implantare distale. La protesi definitiva dev’essere eseguita dopo la stabilizzazione dei tessuti. L’87% del totale dei pazienti che ha avuto necessità di intervento di implantologia aveva un’età compresa tra i 40 e gli 80 anni, il 56% tra i 50 ed i 70 anni.

     

    Bibliografia:

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